Nelle forme estreme, la tristezza porta alla completa inattività e all’incapacità di autoaiuto del soggetto, che in balia di un’oscura disperazione, si lascia andare a ideazioni e talvolta ad azioni di morte.
La durata e l’intensità variano anche secondo la gravità, soggettivamente percepita, dell’evento.
Alla presenza di rifiuto e di esclusione, la tristezza va ad intaccare l’autostima, mentre in seguito ad un risultato mancato o indesiderato, ad un’aspettativa non soddisfatta o ad un fallimento si ha la delusione e l’abbassamento dell’autoefficacia.
Si può esser tristi anche in assenza di un evento di perdita, ma semplicemente per empatia con qualcun altro che è ferito, sta male e ci sta a cuore.
La risposta all’evento della separazione in animali superiori, ma soprattutto nelle scimmie, presenta una reazione di protesta e spesso di disperazione, mentre la fase del distacco non è quasi mai compiuta.
Si sono osservate madri scimmie trascinare e tentare di rianimare il piccolo morto per vari giorni. Anche gli elefanti sostano per giorni intorno al cadavere di un membro del loro branco.
La fase successiva è caratterizzata da azioni ed espressioni che hanno analogie con l’elaborazione del lutto al venire meno di una relazione sociale primaria ed umana, come quella fra madre e figlio, fra coetanei di ogni età, per cui si ritiene che tutte queste manifestazioni, che l’uomo identifica come tristezza, abbiano una base biologica.
In tal senso vanno i dati della ricerca, secondo cui la risposta emotiva della tristezza ha una base genetica, e presumibilmente, una funzione adattiva di sopravvivenza. In assenza di rallentamento e nascondimento l’animale ferito andrebbe incontro a morte certa.
Inoltre, l’universalità di questa emozione è confermata dalle osservazioni antropologiche che affermano esser il lutto e la tristezza delle esperienze presenti nelle loro manifestazioni principali in tutte le culture.
La tristezza è caratterizzata da un sentire sofferente, penoso e privo d’orizzonte, il quale si fa più o meno intenso in base alla distanza intima, affiliativa e stanziale dell’oggetto di attaccamento perduto, per cui il distacco o la perdita sono conseguentemente più o meno significativi.
La nostra cultura da sempre teme molto la rabbia come segnale di aggressività e possibile distruttività, dà attento ascolto alla paura come segnale d’insicurezza, ma sottovaluta la tristezza, salvo poi imbattersi in stragi in famiglia il cui protagonista è una persona innocua, recentemente divenuta schiva e triste.
La tristezza è un’emozione complessa e può quindi includere altre emozioni, come la rabbia, la paura e la repulsione ed essere tanto più grande, quanto è maggiore il danno, la sconfitta o la perdita subite. Quando l’elaborazione di una perdita o di una sconfitta fallisce e non è accettata, la tristezza regredisce alle emozioni annidate.
Se sarà la rabbia a prevalere, più forte sarà la spinta distruttiva, mentre se prenderà il sopravvento la paura di non farcela, allora la perdita di senso della vita, la risposta rinunciataria, o peggio depressiva, innescherà possibili comportamenti di isolamento, di rifiuto della realtà o addirittura a gesti autodistruttivi.
Il criterio di valutazione della tristezza, pur sottostando allo stile attributivo individuale, focalizza essenzialmente la mancata riuscita, le perdite e le sconfitte attraverso le negative constatazioni:
“Non riesco! Non ce la faccio! Ho perso! Non resta con me! Mi abbandona! L’ho perso!”
Conseguentemente, l’attivazione subirà un’automatica inibizione con un rallentamento generalizzato dell’organismo per perdita di motivazione.
Analogamente le risposte espressive assumono le forme della postura accasciata, dell’eloquio lento e del rallentamento motorio.
L’espressione del volto presenta un leggero e costante corruccio, e le sopracciglia e gli angoli della bocca tendono al basso.
Le manifestazioni (output) vanno dal pianto e cordoglio, al nascondimento e rifugio nel ricordo, dal rifiuto alla paranoica negazione dell’evento doloroso, dalla fuga nella distrazione alla depressione.
La tristezza è sinergica con le emozioni negative in genere, come il rifiuto, il dolore, la rabbia, la colpa, mentre trae consolazione, e a volte rifugio, dalle emozioni positive soprattutto da quelle di area filiaca.
Talvolta la tristezza diventa un atteggiamento, uno stile che va sotto il nome di vittimismo. In quel caso ha la funzione di attrarre su di sé l’attenzione, senza dover per altro fornire una contropartita, ma anzi di generare in assenza di ascolto dei sensi di colpa per mancata compassione.
Nell’elaborazione del lutto, nel capitolo successivo sulla reintegrazione, si vedrà che si devono affrontare e superare tutte queste emozioni.
Carlo Bonesso
Presidente Siti