La nostra società si contraddistingue per un progressivo aumento della fascia di soggetti vecchi ed anziani. Proprio in tali soggetti si concentrano maggiormente una serie di patologie, prevalentemente croniche quali il diabete, le malattie cardiovascolari, le malattie osteoarticolari, etc. Talora, pur non essendo presenti quadri patologici evidenti e clinicamente conclamati, è invece presente una condizione indicata dagli anglosassoni con il termine di “subhealth” (sottosalute), ovvero un insieme di condizioni a limite tra il fisiologico ed il patologico, tali, comunque, da condizionare negativamente la qualità di vita della persona.
L’invecchiamento, da un punto di vista biomedico, è un processo biologico, contraddistinto da progressivi cambiamenti che si realizzano nel corso della vita dell’individuo, caratterizzati da una sempre minore capacità di adattamento dell’organismo all’ambiente. Tali cambiamenti espongono la persona anziana ad un’aumentata fragilità nei confronti delle malattie.
Tale processo naturale è “guidato” da fattori biologici geneticamente programmati, ossia il patrimonio genetico, su cui intervengono ed interagiscono fattori ambientali (sedentarietà, abitudini alimentari scorrette, esposizione a sostanze inquinanti, patologie, etc).
Mentre il patrimonio genetico rappresenta un fattore non modificabile della persona, è risaputo che è possibile intervenire, invece, sui fattori ambientali, ritenuti, pertanto, di rischio modificabili.
È ormai dimostrato che lo stato di salute e di autonomia funzionale dell’anziano non dipende esclusivamente dall’invecchiamento, come semplice dato cronologico, ma è influenzato, in misura importante, dallo stile di vita che questo segue.
È proprio sulla “correzione” di questi fattori di rischio che si indirizzano o meglio dovrebbero indirizzarsi le maggiori risorse delle politiche sanitarie delle nazioni avanzate.
Ippocrate, oltre 2400 anni fa, già affermava “se fossimo in grado di fornire a ciascuno la giusta dose di nutrimento ed esercizio fisico, avremmo trovato la strada della salute” anticipando, seppure in assenza di evidenze scientifiche, l’importanza dei fattori ambientali, per il mantenimento di un ottimale stato di salute.
Oggi tale tesi appare quanto mai vera anche in relazione alle numerosissime conferme scientifiche riscosse.
Tutti gli studi al riguardo hanno, infatti, confermato come chi pratichi regolarmente un’adeguata attività fisica e si alimenti correttamente viva più a lungo e soprattutto goda di un migliore stato di salute generale.
Un esempio emblematico al riguardo ci è offerto da uno studio finlandese (nazione assai attenta alle politiche sanitarie preventive) pubblicato nel 2002 sulla prestigiosa rivista “ New England Journal of Medicine” (ma quanto mai attuale), il Diabetes Prevention Program Reserach Group, che ha dimostrato in modo ineccepibile l’utilità e l’efficacia sulla prevenzione del diabete di una dieta controllata e di un’attività fisica regolare.
Il campione dello studio era composto da 3234 adulti ad alto rischio di sviluppare un diabete conclamato, che sono stati assegnati per randomizzazione a tre gruppi di intervento: al primo gruppo che ha mantenuto uno stile di vita standard è stato somministrato quotidianamente un farmaco ipoglicemizzante orale, la metformina, per due volte al giorno; il secondo gruppo ha mantenuto uno stile di vita standard più il trattamento con un placebo per due volte al giorno (ovvero un non farmaco, ovviamente ad insaputa dei soggetti); il terzo gruppo è stato invece coinvolto in un programma intensivo di modificazioni dello stile di vita finalizzato alla perdita di peso ed allo svolgimento di almeno 150 minuti alla settimana di attività fisica.
I maggiori risultati in termini di prevenzione del diabete di tipo 2 sono stati evidenziati proprio nel gruppo coinvolto nelle modifiche dello stile di vita (dieta ed esercizio fisico) e l’efficacia preventiva è stata notevolmente maggiore rispetto al gruppo trattato con il solo farmaco (58% contro 31%, quindi un’efficacia preventiva praticamente doppia). Ne consegue quindi che l’intervento intensivo sullo stile di vita può, come in questo caso, risultare clinicamente più efficace del solo trattamento farmacologico.