In Italia nasce un sordo ogni mille abitanti (in Sicilia 2 ogni mille), e questa condizione di “sordità pre-verbale”, cioè prima dell’apprendimento della lingua parlata, è la condizione più grave poiché apre una “sfida educativa” per il bambino e per i suoi educatori (Asp, famiglia, scuola, società) in un mondo orientato e costruito sul “parlato” e sulle lingue vocali. Imparare a “parlare” e a “capire le parole”, cosa naturale per le persone che sentono, è per il sordo una conquista faticosa e “innaturale”, proprio perché il suo udito non funziona bene, e i suoni sono percepiti in forma distorta e non chiara, specialmente per le sordità gravi. La “sfida educativa” che siamo chiamati a vincere è la stesura di un percorso che sia funzionale all’integrazione scolastica prima e sociale poi, ma nel rispetto della persona sorda e della sua natura. Già solamente la scelta del termine è importante perché presuppone concezioni e visioni del sordo diverse. Chiamare “audioleso” o “non udente” una persona con sordità può sembrare più delicato e rispettoso invece ad un attenta analisi sottolinea con le accezioni linguistiche negative di “leso” o “non” le carenze della persona sorda. Il termine “sordo” invece è termine linguisticamente neutro che non include nessun termine negativo (leso, o non) seppure non nasconda le difficoltà uditive. Accettare già questo concetto non è facile, vuol dire in estrema sintesi dai termini alla sostanza, accettare che le persone con sordità siano persone “splendidamente diverse” da noi e quindi vanno “comprese e sostenute nelle loro difficoltà come nelle loro caratteristiche e potenzialità naturali”. Il sordo nel proprio percorso di crescita deve imparare a parlare e capire le persone che parlano nel miglior modo possibile, perché solo così potranno entrare in relazione completa con la società. Tuttavia, è altrettanto innegabile che questo percorso di apprendimento non sempre si conclude con un successo, non perché il lavoro del logopedista, dell’audiologo o della famiglia non è stato svolto con cura e attenzione. Bensì, nell’apprendere a parlare e capire la lingua verbale entrano in gioco anche altri “necessari pre-requisiti” come l’intelligenza, la motivazione, la naturale disponibilità all’apprendimento delle lingue che sono elementi soggettivi. Di contro, il sordo ha caratteristiche naturali per cui l’attenzione visiva, la percezione visiva sono più acute poiché per natura quotidianamente allenate per vicariare l’udito deficitario. I sordi, di conseguenza se lasciati liberi di esprimersi “per natura” sono portati a comunicare con una “lingua” fatta non di suoni bensì di “segni”, di movimenti delle mani accompagnati dalla comunicazione corporea che permette loro tutto ciò che noi udenti facciamo con una lingua verbale. Per molti, tra i metodi di educazione per i sordi dovrebbe essere incluso il “Bilinguismo Lis-Italiano” (Lis= Lingua dei Segni Italiana) perché non soltanto rappresenta un “paracadute” per i sordi che non imparano un buon italiano, ma anche per rispetto della “condizione di natura” del sordo. Purtroppo il solo confronto su questo tema in Italia è da sempre “scontro” in cui i veri sordi sono i professionisti e gli operatori che confondono bambini e famiglie non disposti, spesso, ad ascoltare a “mente aperta” l’uno le ragioni dell’altro. Ciò ha portato a far si che l’Italia nonostante le dichiarazioni dell’Onu e dell’UE, sia rimasta l’ultima in Europa insieme a Malta a non riconoscere la Lingua dei Segni. Di conseguenza, ciò ha rallentato se non bloccato la possibilità di un’Educazione Bilingue che per una parte di sordi Italiani sarebbe la modalità educativa più adatta allo sviluppo completo della propria personalità e persona “un problema nel problema”.