La Sanità italiana e i suoi utenti hanno sofferto per anni per errate o superflue prescrizioni mediche che hanno depauperato le risorse economiche a disposizione. Questo fenomeno è stato acuito dall’emergere di un atteggiamento da parte dei medici a causa delle numerose cause intentate per casi di malasanità, definito “Medicina difensiva”. Ora, il Ministero ha varato una stretta per diminuire i costi superflui, riducendo il ricorso agli esami medici. L’iniziativa avrà buone intenzioni, ma la sua applicazione rischia di comportare costi maggiori, poiché, diminuendo la disponibilità e l’accessibilità agli esami, diminuisce la prevenzione e non si potranno affrontare con la stessa efficacia gli eventi patologici intercorrenti. L’Ordine dei Medici di Palermo ha espresso una posizione netta sul caso che qui riportiamo.
In questi giorni è entrato in vigore il contestato decreto “Appropriatezza”, un provvedimento che durante il suo travagliato iter legislativo ha fatto già tanto discutere il mondo politico, i sanitari e i cittadini. Ancora una volta il governo, attraverso un provvedimento calato dall’alto e senza il preventivo contributo dei professionisti che sono chiamati ad applicarlo, è riuscito a scontentare tutti. I presidenti di alcune Regioni, prima fra tutte la Toscana, hanno invitato i direttori generali a soprassedere all’applicazione. I sindacati denunciano l’ennesimo trasferimento di un pacchetto di prestazioni sanitarie dal pubblico al privato. I medici, in particolare quelli di medicina generale, ne contestano la farraginosità, le incongruenze e le oggettive difficoltà interpretative e applicative. I cittadini e i pazienti sono convinti di essere stati bersaglio di nuovi pericolosi tagli che minacciano la tutela della salute e i loro diritti. Nel decreto si fa una gran confusione tra razionamento e appropriatezza. È del tutto evidente che quando si parla di condizioni di erogabilità siamo di fronte a provvedimenti che si propongono di razionare le risorse. Per esempio, si è deciso che molte prestazioni odontoiatriche siano a carico del servizio pubblico solo fino a 14 anni; ciò non perché curare i denti dai 15 anni in poi sia inappropriato, ma semplicemente perché il governo ha deciso che i costi di quelle prestazioni ricadano direttamente sul cittadino. Non si tratta quindi di una questione di appropriatezza, e questo va detto in modo chiaro ed esplicito, anche per evitare deleterie confusioni rispetto ad un termine che in medicina ha un significato ben preciso: effettuare la prestazione giusta, in modo giusto, al momento giusto, al paziente giusto. Sarebbe molto meglio, quindi, ricomprendere tutte le norme che riguardano il razionamento dei servizi negli appositi elenchi che definiscono i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), cioè le prestazioni e i servizi garantititi a tutti i cittadini da parte dello Stato e delle Regioni. Anche per quanto riguarda l’appropriatezza clinica permangono forti perplessità. A parte la presenza nel decreto di alcuni bizzarri svarioni, i medici sono convinti che, soprattutto in campo diagnostico, sia davvero difficile stabilire a priori, e con valore di legge, cosa sia utile fare o non fare nelle diverse circostanze che caratterizzano la pratica clinica. È evidente che a questo scopo il medico si debba avvalere di linee guida, percorsi diagnostici e terapeutici e delle migliori conoscenze scientifiche, ma sulle sue decisioni influiscono molte altre variabili, quali la credibilità del professionista, le richieste, i valori e la fiducia del paziente, i margini d’incertezza dei risultati, l’evoluzione delle conoscenze, il contesto fisico e soprattutto culturale di erogazione delle cure. Tutti questi elementi, nel loro insieme, contraddistinguono l’atto medico, e sono basati, oltre che sulle conoscenze scientifiche, sull’instaurarsi di un’effettiva reciprocità nella relazione di cura. Ben difficilmente tali elementi possono trarre vantaggio da provvedimenti impositivi, di tipo burocratico, validi per tutti. Pur riconoscendo che la medicina è pervasa da prestazioni inappropriate verso cui in qualche modo occorre intervenire, e che in linea di principio alcune indicazioni regolatorie e di controllo sui comportamenti prescrittivi possano essere utili a tutela del paziente, prima ancora che per ragioni economiche, molti medici sono convinti che a questo fine la via legislativa sia uno strumento poco efficace o addirittura tossico. I colleghi che nella loro attività professionale fanno riferimento ai valori ed ai principi etici di Slow Medicine, ad esempio, hanno da tempo affrontato la questione dell’appropriatezza clinica, indicando un percorso completamente diverso per ridurre l’eccessivo utilizzo di esami diagnostici e di trattamenti: per Slow Medicine le prestazioni a rischio d’inappropriatezza non devono essere imposte dall’alto, ma devono piuttosto essere basate sull’assunzione di responsabilità dei medici e degli altri professionisti sanitari. Al centro dell’interesse dei professionisti debbono permanere la relazione e il dialogo con i pazienti e i cittadini, che devono essere informati sui benefici e i possibili danni di esami e trattamenti, per giungere ad una decisione condivisa.
Le 145 pratiche diagnostiche o terapeutiche “a rischio d’inappropriatezza” finora individuate da 29 società scientifiche e associazioni professionali italiane nell’ambito del progetto di Slow Medicine “Fare di più non significa fare meglio – Choosing Wisely Italy”, non sono, quindi, da intendere come liste di esclusione bensì come prescrizioni da proporre dopo un’attenta valutazione del professionista, supportata dal dialogo con il paziente.
Si ritiene, infatti, che l’appropriatezza clinica si possa migliorare solo se pazienti e cittadini prendono coscienza che esami e trattamenti inappropriati non solo sono uno spreco ma possono rappresentare una minaccia per la loro salute: basti pensare ai danni da radiazioni ionizzanti, agli effetti collaterali dei farmaci, alle complicanze di procedure invasive, ai falsi positivi e alle sovradiagnosi.
La promozione dell’appropriatezza clinica non è finalizzata a ridurre solo il sovra-utilizzo, cioè le pratiche erogate in eccesso, senza un favorevole rapporto tra benefici e rischi, ma anche il sotto-utilizzo, cioè le pratiche che secondo le prove scientifiche apportano benefici, ma che non vengono erogate a sufficienza, come ad esempio le cure domiciliari per malati cronici, malati terminali e disabili: la riduzione del sovrautilizzo può anzi permettere un impiego più appropriato delle risorse e una medicina più equa.
Redazione