Il nostro livello d’istruzione non è dei migliori e questo è stato rilevato da tempo dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse). Tuttavia, una nuova conferma viene dall’Oecd Skills Outlook 2015, da cui emerge come l’Italia sia l’ultimo paese dell’area Ocse per occupazione giovanile. Infatti, solo il 52,8% dei giovani tra i 25 e i 29 anni ha un’occupazione, contro una media pari al 73,7% nell’area Ocse. A precederci, sono rispettivamente la Spagna (58,1%) e la Slovacchia (66,9%), mentre il paese con la maggior percentuale di giovani occupati è l’Olanda (81,7%), seguita dall’Austria (81,4%) e dal Giappone (81,2%). Solo la Grecia fa peggio, perché non è neanche inclusa nella lista. Questo non è il solo aspetto negativo, perché occorre includere il fenomeno dei Neet, termine che indica i giovani inattivi che non sono né occupati, né a scuola o in formazione. Tutti i Paesi industrializzati subiscono questo fenomeno, ma l’Italia sembra distinguersi, poiché nel 2013 i “Neet” hanno raggiunto la quota del 26,09% degli under 30. Il valore si è incrementato di 5 punti percentuali rispetto al 2008, cosa che rappresenta il quarto dato più elevato tra gli stessi Paesi Ocse, la cui media è del 15%, dopo Turchia, Grecia e Spagna. In Italia, tra l’altro, appartiene alla fascia “Neet” il 18% circa dei giovani che hanno terminato con un’istruzione professionale, cosa che segnala le difficoltà della transizione tra scuola e lavoro. Non a caso, nell’ex Belpaese, il 17% dei giovani lascia la scuola secondaria senza avere conseguito un diploma e solo la Spagna fa peggio di noi. Gli inattivi sono più diffusi, però, tra i giovani che si sono fermati alla scuola dell’obbligo (il 50% del totale dei Neet), ma non manca anche un 10% che ha conseguito la laurea e il restante 40% possiede il diploma secondario. Questi risultati dimostrano che una parte del nostro potenziale umano non produce né gestisce ricchezze, cosa che si traduce in un notevole spreco di risorse umane. I dati seguenti non rendono meno pesante il colpo, perché le carenze rilevate nel rapporto hanno dell’incredibile e testimoniano un pesante regresso dell’istruzione, dimostrando che le riforme succedutesi negli ultimi 10 anni sono state prive di efficacia. Di fronte ad una media Ocse del 10% dei giovani tra i 16 e i 29 anni che ha scarse competenze di lettura e scrittura, l’Italia raddoppia la percentuale con il 20%, cosa che le assegna la prima palma dell’ignoranza. Per il Paese che vanta una cultura delle lettere più che millenaria, è più di una sconfitta, cui ne segue una altrettanto perniciosa per le nostre potenzialità industriali e terziarie, la scarsa competenza matematica dei suoi allievi che interessa il 25% dei giovani, contro il 14% medio Ocse. Nella fascia d’età tra 16 e 29 anni, le competenze matematiche di un laureato italiano si fermano a un voto Ocse di 280 punti, contro i 300 della media, mentre la media di un diplomato è attorno a 250 e chi non è andato oltre la scuola dell’obbligo è a 210 punti. Nel dettaglio, il 60% dei giovani italiani ha scarse competenze matematiche, la seconda percentuale più alta dell’Ocse, mentre tra chi completa la scuola superiore, è il 30% ad avere scarsa dimestichezza con i numeri. In entrambi i casi, le percentuali italiane sono assai più elevate delle medie Ocse che sono rispettivamente, il 40% e il 20%. Tuttavia, è sul fronte del lavoro che i dolori sono più lancinanti, poiché la Penisola è il Paese dove solo il 10% di giovani associa lo studio con il lavoro contro il 60% ad esempio dell’Olanda e dell’Australia. Oltre il 50% dei giovani ha un lavoro temporaneo, cioè precario, la terza percentuale più alta dell’Ocse, contro la media del 23%. Il 54% dei giovani italiani non ha esperienza di computer sul lavoro, il dato più alto dell’Ocse, mentre oltre il 30% riferisce poi di avere compiti di routine al lavoro e di imparare poco nel farli, la seconda più alta percentuale dell’Ocse. La motivazione a dare il meglio al lavoro non ne esce bene, riportando che meno del 60% dei lavoratori italiani condivide questo pensiero. Queste cifre non dimostrano solo uno spreco finanziario, ma indicano che le competenze acquisite nei percorsi educativi non sono utilizzate a fini produttivi. Ciò si tradurrà in minori entrate fiscali, in costi maggiori per prestazioni sociali, e si tradurrà in un regresso culturale ed economico tale da ricreare masse di lavoratori difficilmente gestibili di fronte a caste formate da pochi privilegiati.
Francesco Sanfilippo
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