Secondo due studi pubblicati di recente online su Diabetes Care, molte persone con diabete di tipo 1 continuano a secernere a lungo piccole quantità di insulina dopo la diagnosi. In particolare, chi ha sviluppato la patologia durante l’adolescenza o in età adulta, ha maggiori capacità di conservare una certa capacità di rinascita delle cellule Beta che sono quelle deputate alla produzione di insulina, rispetto a chi ha esordito da bambino.
In uno dei due lavori, coordinato da Richard A. Oram, del National Institute for Health Research, dell’Università di Exeter, nel Regno Unito, è emerso che l’80% dei pazienti che avevano meno di 30 anni al momento della diagnosi ed erano malati da almeno 5 anni, ha mostrato di avere ancora i livelli di peptide C rilevabili. L’altro, coordinato da Asa K Davis, del Benaroya Research Institute di Seattle, ha evidenziato che è ancora presente la capacità di secernere quantità residue d’insulina in un paziente su tre cui è stato diagnosticato il diabete di tipo 1 non più di 3 anni prima. La coautrice del secondo studio, Anne L. Peters, della Keck School of Medicine, University of Southern California, Los Angeles, California, ha dichiarato: “La convinzione diffusa è che i pazienti malati da un tempo abbastanza lungo non abbiano più peptide C.
Tuttavia, se si dispone di un test sufficientemente sensibile, si vede che molti, in realtà, sono in grado di produrlo”.
Quest’aspetto era già stato evidenziato in studi precedenti, ma non molto ampi, mentre entrambi quelli appena pubblicati hanno coinvolto più di 900 pazienti.
Questa scoperta suggerisce che un giorno potrebbe essere possibile recuperare la produzione delle cellule beta, senza il ricorso a cure costose o trapianti dall’esito incerto.
Tuttavia, tale scoperta ha un rilevo clinico immediato, nel diagnosticare correttamente l’esordio del diabete di tipo 1.
Secondo la Peters, “le persone con diabete di tipo 1 hanno ancora le cellule beta e producono ancora un po’ di insulina perché il processo autoimmune potrebbe non causare la completa distruzione delle cellule beta.
Questo interessante e complica la diagnosi, ma ciò non toglie che il diabete di tipo 1 resta una malattia autoimmune”. In realtà, lo studio della Peters e dei suoi colleghi mostra che i livelli di peptide C tendono ad essere più alti tra coloro che sviluppano la malattia in età adulta, quando, tradizionalmente, questo scenario è ancora identificato dai medici ancora con i bambini, ragion per cui prende il nome di diabete giovanile.
In effetti, secondo la Peters, “spesso si vedono pazienti con diabete autoimmune all’esordio in età adulta cui era stato diagnosticato erroneamente un diabete di tipo 2 e, di conseguenza, prescritta impropriamente la metformina invece dell’insulina.
Bisogna essere consapevoli del fatto che il diabete autoimmune di tipo 1 può manifestarsi a qualsiasi età e che pazienti in cui si sviluppa tardi mantengono la capacità di produrre peptide C più a lungo di quelli che si ammalano da giovani”. In questo caso, secondo la coautrice, “di fronte a un adulto che non rientra nel quadro tipico del diabete di tipo 2, bisognerebbe prendere in considerazione la possibilità di un diabete di tipo 1 e, in caso di dubbio, inviare il paziente a un endocrinologo, perché la questione non è semplice”. Infatti, nei pazienti adulti esordienti che non presentano insulino-resistenza né una familiarità di diabete di tipo 2, usare il C-peptide come criterio per cercare di stabilire se hanno il diabete di tipo 1 o 2, non è sicuro, poiché molti pazienti con diabete di tipo 1 risultano ancora positivi al test.
Secondo la studiosa, maggiori risultati si avrebbero, cercando le prove dell’autoimmunità come far eseguire un test dell’anti- acido glutammico decarbossilasi (GAD), dato che circa l’80% delle persone con diabete di tipo 1 autoimmune è positivo all’anticorpo.
Se questo test risultasse negativo, si può rilevare la presenza degli anticorpi anti-trasportatore dello zinco, che, di solito, sono positivi se il paziente ha in corso un esordio di diabete di tipo 1.
“La buona notizia è che alcuni pazienti con diabete di tipo 1 sono ancora in grado di produrre insulina e questo è un fattore prognostico favorevole e sembra essere utile” ha concluso la Peters.
In Italia, in questo momento, ci sono 120.000 soggetti affetti da diabete di tipo 1, ma è un numero approssimativo per via dell’aumento notevole di casi che si registrano ogni anno, in particolare nella fascia di età tra gli 0 e i 5 anni. Le cause di questa patologia autoimmune restano ancora sconosciute, seppur non siano mancate delle scoperte che hanno gettato nuova luce sulla sua genesi.
La speranza è che tali ricerche portino in tempi relativamente brevi, a soluzioni definitive per una malattia che coinvolge profondamente pazienti e operatori socio-sanitari.
Francesco Sanfilippo